Il Prof. e i Robot, così si progetta l'avvenire

on Wednesday, 19 November 2014. Posted in Press

Antonio Bicchi parla di innovazione, intervista di Gianni Parrini

Antonio Bicchi e la Pisa-iit SoftHand - Foto di Massimo Brega
Antonio Bicchi e la Pisa-iit SoftHand - Foto di Massimo Brega

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«Non basta avere buone idee, bisogna saperle applicare al mondo che ci circonda». È la potenza che conclude, la forza che trasforma le idee in atto mettendo loro l’abito della realtà. Spesso in Italia ci si interroga sull’importanza della creatività, sottolineando come il nostro Paese sia ricco di cervelli. Ma senza la capacità di tradurre concetti, algoritmi e formule matematiche in qualcosa di applicabile alla vita quotidiana questa ricchezza rimarrebbe priva di valore. Per capire di cosa discutiamo quando citiamo il termine innovazione abbiamo interpellato chi quotidianamente si cimenta con questa materia.

Parliamo di Antonio Bicchi, senior scientist all’Istituto italiano di tecnologia di Genova, nonché docente ed ex direttore del Centro “Enrico Piaggio” dell’università di Pisa, istituti di ricerca interdisciplinari tra i primi in Europa per la robotica e la bioingegneria. Qui si progetta un futuro che non è affatto lontano, tra rivoluzionari e mani robotiche, umanoidi capaci di esprimere sentimenti e macchine in grado di coordinarsi in comunità e prendersi cura degli esseri umani.

Nei laboratori di ricerca come viene interpretata la parola innovazione.
«Innovare significa trasferire i risultati della ricerca nella realtà della produzione e della vita quotidiana. In pratica, è portare sul campo il nostro lavoro. Quando facciamo ricerca ci preoccupiamo essenzialmente di tre cose: che sia originale, avanzata sul piano internazionale e rilevante sul piano pratico. Il percorso è semplice: si parte da problemi reali, ad esempio quelli che incontra un’impresa manifatturiera, per poi portarli su un piano concettuale in cui si affronta non la singola vicissitudine, come farebbe un consulente industriale, ma un’intera famiglia di problemi a essa collegati. Una volta risolta la questione su questo piano si torna al contesto originario ma con un valore aggiunto che si traduce in un vantaggio non nel singolo caso, ma in tutta una famiglia di prodotti odi processi di produzione».

Come affrontate i problemi che vi si presentano?
«Le fonti di ispirazione possono essere assai diverse: si va dall’osservazione della natura a quella di campi totalmente diversi rispetto a quello in cui ci si trova a operare. Bisogna lavorare a un livello in cui è possibile portare idee da un settore all’altro e questo lo si fa solo astraendo dalla condizioni di partenza del problema. In ciò è fondamentale l’utilizzo degli strumenti propri dell’ingegneria: la matematica, la fisica e tutte quelle discipline che consentono di modellare i processi e tradurre i concetti».

Ha detto che anche la natura vi ispira. Di solito quando si parla di innovazione si pensa a qualcosa che si allontana dall’ordine naturale delle cose.
«Invece guardare a come la natura risolve i problemi è sempre stato essenziale. Le faccio un esempio: le mani artificiali sono un tema aperto da molti anni nel campo della ricerca. Per ricchezza di sensori e complessità meccanica è sempre stato difficile creare una mano robotica che funzioni bene: erano sempre troppo costose o troppo fragili o troppo complicate. Risultato: inutilizzabili. Basandoci su alcuni studi di neuroscienze abbiamo scoperto che il nostro cervello può usare lamano come organo di senso e controllarla solo grazie a delle strutture che limitano e organizzano questa complessità: sono le cosiddette “sinergie”. I bambini, ad esempio, imparano a usare le sinergie elementari della mano per le prime prese e poi gradualmente le arricchiscono per arrivare alle manipolazioni più destre. È un approccio che stiamo portando avanti con il progetto Soft Hand, svolto dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova in collaborazione con il Centro Piaggio. Siamo riusciti a costruire mani robotiche di estrema semplicità, molto robuste e capaci di realizzare una grande varietà di prese. Queste mani diventano gradualmente più abili incorporando sinergie sensomotorie via via più sofisticate. E dalla natura abbiamo imparato anche altro…».

Vale a dire?
«Da tempo l’approccio puramente astratto e computazionale alla questione dell’intelligenza artificiale denuncia limiti evidenti. Oggi sappiamo che la fisicità ha un ruolo fondamentale nell’influenzare lo sviluppo delle capacità cognitive dell’uomo e il suo modo di conoscere e manipolare il mondo esterno. Lo stesso discorso vale per le macchine. Per questo sarà importante realizzare robot con un corpo sempre più simile al nostro. Le mani in questo sono fondamentali. I filosofi d’altronde, lo hanno pensato sin dall’inizio: Anassagora sosteneva che l’uomo è il più intelligente degli animali perché ha le mani, mentre Bergson antepone l’homo faber al sapiens ».

Quali sono i prossimi obiettivi e quali gli ostacoli da superare?
«La soft robotics è uno dei temi oggi al centro della ricerca. Fino a ora la convivenza tra robot e uomini poteva essere fonte di pericolo per questi ultimi. Le meccaniche delle macchine, infatti, erano costituite da parti rigide e pesanti. Noi abbiamo introdotto una nuova generazione di robot “cedevoli” e per questo più adatti alle interazioni con l’uomo. Un altro tema su cui stiamo lavorando è quello della semplicità e della robustezza: vogliamo robot che non siano solo dispositivi da laboratorio. Tradotto, non devono essere troppo fragili ne troppo complessi. La semplicità di controllo è fondamentale: l’utilizzo delle macchine deve essere intuitivo e piacevole per non scoraggiare gli utenti».

L’ostacolo principale?
«Bè, semplice non è facile! Nella scienza e nella ingegneria, ci vogliono anni di studio e di riflessione per arrivare a formule o tecnologie semplici, ma non ci sono risultati importanti che non abbiano una loro intrinseca semplicità e bellezza».

Allarghiamo il campo: quali sono i filoni della ricerca che nei prossimi anni potranno avere un impatto rivoluzionario sulla vita dell’uomo medio?
«Sono state fatte molte previsioni e in gran parte si sono rivelate sbagliate. Una delle cose che mi aspetto prenda piede nei prossimi cinque, dieci anni è la guida automatica dei veicoli. La tecnologia necessaria è già disponibile. In pratica, tra non molto sarà possibile andare da Pisa a Genova premendo un bottone sul cruscotto dell’auto. Ben inteso, al conducente sarà lasciata la possibilità di intervenire in qualunque momento ma, soprattutto in autostrada, i suoi interventi saranno ridotti al minimo. L’autopilota sarà capace di impostare il tragitto, tenere la velocità adatta alle condizioni del traffico e mantenere la distanza di sicurezza da chi ci precede. Questo aumenterà la sicurezza degli spostamenti sollevando l’uomo dall’obbligo della continua attenzione. Ci sono già molti prototipi in giro, si tratta solo di portare a sistema questa tecnologia ».

Dopo la rivoluzione di Internet, quale sarà il prossimo passo?
«Punto sul personal robotics. Negli ultimi trenta, quarant’anni la capacità della machine intelligence è cresciuta circa 40mila volte. La potenza di calcolo dei telefonini di oggi è molto superiore a quella dei computer che negli anni Sessanta mandavano le sonde nello spazio. La capacità di moto delle macchine, invece, è cresciuta molto meno ed è sostanzialmente la stessa del secolo scorso. Ma un nuovo tipo di machine motion sta venendo fuori: ci sono tecnologie basate sull’integrazione di materiali diversi, oltre a sensori e attuatori di nuova generazione. Dopo la rivoluzione industriale e quella informatica il prossimo salto in avanti sarà generato dall’integrazione del silicio con l’acciaio: presto avremo macchine intelligenti dalla forma umanoide, capaci di prendersi cura di anziani e malati, e di svolgere compiti domestici e non».

Questo processo di innovazione può essere fonte di ricchezza per un Paese. L’Italia come è messa? Abbiamo grandi eccellenze ma anche grandi arretratezze.
«Forse la sorprenderò ma io sono più ottimista delle media degli italiani: non vedo grandi arretratezze, al contrario credo che l’Italia sia un Paese su cui vale la pena di investire. Nell’ambito dell’industria, ad esempio, la robotica potrebbe consentire di riportare qui molte delle produzioni che nel corso degli anni erano state trasferite all’estero per l’alto costo del lavoro. Bisognerebbe avere solo un po’ più di coraggio per sfruttare queste tecnologie e trasformare la ricerca in prodotto. In questo caso il compito principale spetta all’industria: servono imprenditori che abbiano le risorse e la voglia di innovare».
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